Tongues with no Mother. Lost and Found Belongings in the “New” Languages of Storytelling
DOI:
https://doi.org/10.13136/2724-4202/1703Parole chiave:
nomadismo, identità, esilio, traduzione culturale, arti visive, musica, fotografiaAbstract
Il titolo di questo contributo sviluppa un concetto tratto da Motherless Tongues (2016) di Vicente Rafael ed esamina il modo in cui, in relazione alla dislocazione forzata e alla migrazione, la lingua tende a diventare la pietra angolare dell’identità personale e collettiva. Esuli, richiedenti asilo o soggetti nomadi si trovano spesso a muoversi in uno spazio liminale tra diverse appartenenze. Nella maggior parte dei casi, a queste persone è negata persino la possibilità di riconoscere la propria lingua madre come segno identitario. Quando si rivolgono all’arte, tendono a creare testi che mostrano fratture e discontinuità, e a utilizzare la traduzione come un’operazione che va ben oltre il semplice passaggio da una lingua all’altra. Il sentimento di essere “divisi tra più vie” (torn between ways, Gloria Anzaldúa 1987) diventa una risorsa artistica e uno strumento politico volto a riconoscere (e accettare) la mancanza di purezza come forma di forza. Si prendono in considerazione alcuni casi di studio, tutti riconducibili all’ultima generazione di artisti che operano in ambiti creativi normalmente considerati marginali. Analizzando la produzione artistica di Saint Levant, Shirin Neshat, Giacomo Sferlazzo e Mounira al Sohl, si intende mostrare come la musica pop, la fotografia, il film documentario e la performance teatrale possano dare vita a nuove grammatiche e codici per un mondo sempre più ibridato.
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